Abstract
Il contributo riflette sui «Princìpi generali» del Codice da una prospettiva teorico-generale. La prima parte esamina alcuni princìpi sanciti agli artt. 1-4 del Codice, indagandone la sintassi e la sistematica. La seconda tocca questioni classiche relative all’applicazione e argomentazione basata sui princìpi: cominciando da quelle più tecnico-redazionali, relative a enunciazioni e formulazioni testuali, proseguendo con le funzioni svolte in seno al ragionamento giuridico, fino a giungere alla chiave di volta, ossia i riflessi rispetto all’ideale dello Stato di diritto. L’analisi si sofferma anzitutto sui nessi esistenti tra i princìpi della legge delega e quelli esplicitati nel Codice, ricordando la dimensione implicita dei princìpi e la rilevanza degli studi di legisprudence per chiarire la cogenza dei princìpi legislativi rispetto alla motivazione legislativa. L’analisi si concentra poi sulla estensione generale dei princìpi sanciti ex artt. 1-11 del Codice e sulla portata del «Rinvio esterno» ex art. 12. Viene dunque esaminato il principio del risultato e le gerarchie assiologiche rispetto agli altri princìpi (in primis, legalità, trasparenza e concorrenza, nonché buon andamento, efficienza, efficacia ed economicità, oltre a quelli dell’interesse della comunità e degli obiettivi dell’Unione europea). Si evidenzia la razionalità strumentale soggiacente alla Codificazione. Si chiarisce inoltre che il principio del risultato (cfr. art. 1, co. 4) è defettibile (defeasible), vale a dire suscettibile di eccezioni aperte che implicano una determinazione di caso in caso. Lo studio sottolinea anche quanto i Princìpi generali operino sui due versanti tradizionali a presidio della conformità al diritto: funzione preventiva-repressiva e funzione premiale-promozionale. Analoga attenzione è rivolta al principio della fiducia, alla sua carica simbolico-espressiva e alla concezione del giuridico di cui è proiezione. Lo studio ricorda così la opzione etico-antropologica sottesa all’ideale di un diritto il cui perno è la fiducia tra tutti i consociati, incluse le istituzioni, tra cui le pp.aa.. Viene infine indagato l’art. 4 quale meta-principio funzionale a guidare interpretazione e applicazione delle disposizioni del Codice. La complessiva analisi pone in risalto quanto la Codificazione dia voce a due aspetti salienti trasversali del diritto vigente: promozionalità e particolarismo. La seconda parte del contributo muove da un nervo scoperto della teoria contemporanea dei princìpi: come sia possibile conciliarne la indeterminatezza-discrezionalità con la pretesa di correttezza che si avanza mediante essi. In via ridefinitoria, si propone d’intendere per ‘principio’ (generale) una norma che si assume (i) poter fungere da buona ragione, cioè comparativamente migliore di altre, mai in assoluto, ma sempre ceteris paribus, incorporando valori in un certo qual modo autoevidenti, che alimentano l’accettazione e (ii) suscettibile, a rinforzo, di una pluralità d’usi-funzioni, ancillari, a livello pragmatico. Su questa base, si riflette su come si passa dai princìpi ai casi concreti e la giustificabilità e verificabilità della corretta (giustificata) (dis)applicazione. Nello studio si osserva che la convivenza dello Stato di diritto (con i suoi corollari: separazione dei poteri e rappresentanza democratica) con la inevitabilità della discrezionalità può darsi adottando alcune direttrici metodologiche quali neutralità e carità interpretativa. Quest’ultima si considera espressione dei princìpi, interconnessi, di universalizzabilità e fiducia. La neutralità non viene concepita come assenza di valori-valutazioni, onestà intellettuale e morale esigendo di palesare chiaramente le scelte insite nel metodo giuridico. L’analisi spiega a livello pragmatico perché sia inevitabile ragionare in termini di (unica) risposta corretta o migliore, preferibile (la cosiddetta “right answer”), e che questo estende la rilevanza dell’argomentazione-giustificazione. L’onere di giustificare dovrebbe essere tanto più forte e rigoroso quanto più è opinabile che effettivamente quella che si vuole dare sia la unica risposta (più) corretta. Dal punto di vista interno, si rimarca che la pratica giuridica poggia su, e richiede ai partecipanti (consociati, funzionari, autorità), due generali atteggiamenti solo apparentemente contraddittori: un moderato legalismo, cioè l’aspettativa di poter ottenere giustizia, i.e. decisioni corrette secondo diritto; una moderata ipocrisia, cioè una generalizzata tendenza a occultare lo status quo, nella consapevolezza che non sempre è conforme all’ideale. Il contributo difende in definitiva alcune tesi. Sapendo che la discrezionalità è ineliminabile, ogni controversia non ha sempre una soluzione corretta iuxta propria principia e sarebbe pericoloso illudersi che ciò possa avvenire per il tramite dei princìpi. La pretesa di correttezza è un ideale cruciale al quale tendere, proprio perché la realtà non corrisponde al diritto alexiano o del giudice Hercules. Guardando alla Codificazione dei Princìpi in chiave giusfilosofica, essa esprime una mentalità in cui le visioni apollinee-ireniste prevalgono su quelle conflittualiste. In ciò incarna un neocostituzionalismo principialista ambizioso che, perché non deflagri per eccesso d’hybris, deve conservare la idea di limite. La cultura del neocostituzionalismo principialista trova giustificazione filosofica in una ragion pratica, che è tale entro premesse, non dimostrabili né fondabili, necessariamente limitata. Questa limitazione e, quindi, la diversa possibilità di ragioni impone, per coerenza logica, di riconoscere le ragioni (ugualmente limitate) degli altri. In questo contesto il gioco pubblico delle ragioni è decisivo e, con esso, le tecniche di ragionamento e giustificazione. Le basi, dunque, di una legislazione e prassi fatta per princìpi compatibili con lo Stato di diritto implicano una sfida etica che pone maggiori oneri sulle spalle di chi si trova più prossimo alla decisione concreta. Il neocostituzionalismo principialista esalta così l’(auto)responsabilità di ogni soggetto, investito e non, di poteri pubblici o privati. Di qui, l’assunzione che non vi può essere Stato di diritto senza pretesa di correttezza/giustizia nei suoi due volti: giustizia generalità-eguaglianza ed equità.
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