Genesi e protezione delle posizioni giuridiche soggettive avverso il potere pubblico: per un ripensamento della teoria della “delegittimazione” ad agire nel processo amministrativo

Abstract

Il saggio intende sollecitare il ripensamento di una prospettiva culturale largamente condivisa negli studi sulla giustizia amministrativa. La dottrina e la giurisprudenza richiamano oramai abitualmente il principio di soggettività della tutela giurisdizionale, identificandovi il moderno fondamento individualista del diritto di proporre ricorso e, soprattutto, ne deducono il tramonto dell’antica premessa che descriveva l’azione nel processo amministrativo come un’iniziativa giurisdizionale assunta per la difesa dell’interesse pubblico, in grado di dare tutela solo indirettamente, o per pura coincidenza, all’interesse della parte. Nonostante ciò, una vastissima corrente di pensiero ritiene che il compito del giudice amministrativo nel processo di annullamento non sia semplicemente quello, caratteristico del processo di parti, di pervenire a un convincimento attraverso un confronto imparziale tra le censure avanzate dal ricorrente e la tesi difensiva dell’amministrazione, ma sia essenzialmente quello di dare attuazione alla “volontà” della legge amministrativa di garantire “diritti pubblici soggettivi”, cioè all’intento del legislatore di conferire rilevanza giuridica all’interesse materiale del singolo, che entra così nel processo attraverso la qualificazione e la “protezione” accordatagli dalle stesse norme disciplinanti l’esercizio del potere. Questa rifondazione soggettivistica della tutela, che imprime alla giurisdizione i caratteri di attività strumentale alla garanzia di una situazione soggettiva sostanziale, è stata foriera di notevoli progressi sul piano degli effetti della sentenza e della stessa funzionalità riparatrice del sistema italiano di giustizia amministrativa. Essa ha tuttavia operato anche in chiave limitativa dell’accesso alla tutela, riportando in auge nell’esperienza giurisprudenziale, paradossalmente, l’antica classificazione del giudizio amministrativo come tipico esempio di contenzioso a contenuto oggettivo, nel senso di destinato alla tutela di un interesse pubblico. È comune, infatti, l’opinione che il giudice, investito dell’azione di annullamento, debba attenersi scrupolosamente, prima di decidere sulla validità del provvedimento impugnato, alla massima per cui soltanto i titolari di interessi protetti e dunque “qualificati” dalle norme disciplinanti l’esercizio del potere hanno diritto di azione, poiché essi esclusivamente rivestono la qualità di soggetti “legittimati” alla proposizione del ricorso. Gli altri ricorrenti, ancorché titolari di diritti – ma di diritti non “presi in considerazione” dalla norma attributiva del potere – sono automaticamente “declassati” a quivis de populo, con rarissime eccezioni, che dimostrano solo la grande confusione e il rischio di continue discriminazioni che originano dal panorama appena descritto. La riflessione presentata nel saggio si sofferma criticamente soprattutto sul criterio pratico, avallato dalla dottrina e costantemente utilizzato dalla giurisprudenza, con il quale viene accertato, nei singoli casi, se il ricorrente abbia accesso alla tutela di merito in quanto effettivamente “titolare” dell’azione, oppure agisca per un interesse di mero fatto, non protetto dall’ordinamento, e sia perciò inevitabilmente destinato a vedersi opporre, in rito, una pronuncia di inammissibilità “ostativa” (art. 35 c.p.a.). Va precisato che il contributo non tratta della problematica dei cosiddetti interessi diffusi, considerata anch’essa cruciale, ma meritevole di essere tenuta distinta. Tipico è infatti il frangente processuale in cui il giudice amministrativo è chiamato a risolvere questioni attinenti alla “coagulazione” in capo al ricorrente di un interesse “adespota” o deve decidere sulla natura sufficientemente “esponenziale” del soggetto collettivo che ha agito in giudizio. Il problema sul quale il saggio si focalizza nasce da una situazione completamente diversa: si tratta della circostanza in cui è stata chiesta, ma rifiutata, la tutela di interessi che, al contrario di quelli collettivi e diffusi, vengono allegati come fondati su norme squisitamente individuali, qualificanti, “protettive” di diritti, dunque in qualche modo esclusive (la proprietà e l’impresa, ad esempio) e spesso anche precisamente individuate nel ricorso, ma non sufficienti per arrivare alla sentenza di merito.

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