Abstract
Questo contributo intende ripensare criticamente il pregiudizio secolare che contrappone l’illimitata pratica del perdono nel cristianesimo, contro la riserva ebraica di una assoluzione indiscriminata della colpa. Ben più complessa appare infatti la fenomenologia del perdonare e le pratiche rituali nelle due religioni, entrambe avverse a collocare sullo stesso piano male e perdono. Tale rapporto, infatti, ponendo sorprendentemente in una indiscriminata successione malvagità e dimenticanza, non fa che spalancare l’abisso tra l’assoluto della legge della misericordia e l’assoluto della libertà malvagia. Ed ancora: tra l’inaudita potenza del perdono e le profonde lacerazioni inflitte dal male, indicando che oblio e indifferenza, amnesia morale e facile perdono per conto terzi rischiano, anche oggi, di anestetizzare la colpa e deresponsabilizzare il colpevole. Tale questione, che attraversa la coscienza personale ed anche la dimensione sociale, etico-giuridica e politica (come non pensare agli accorati appelli di Vladimir Jankèlèvitch, all’indomani della temuta prescrizione dei crimini nazista in Perdonner?) si è arricchita nel 900 di numerose riflessioni, fra le quali, quelle di Emil Fackenheim e Riccardo Di Segni da un lato, di Lytta Basset e Paul Ricoeur dall’altro.
L’approfondimento della relazione fra male, pentimento, perdono ed espiazione può così diventare un fecondo terreno di incontro dialogico, in grado di fornire gli strumenti di un’etica della riparazione, corrispettiva alla Restaurative Justice, propria del diritto penale. Riconvertire l’offesa e il male inflitto attraverso la riparazione del danno provocato, può rappresentare un possibile percorso di chiarificazione comune in tema di perdono, in grado di correggere alcuni indiscriminati fraintendimenti e certi secolari malintesi fra le due religioni.
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